La cerimonia che ogni 22 marzo celebra la morte degli undici martiri d’Istia, nel
ricordo di uno dei crimini più efferati compiuti dal fascismo ormai morente e
per questo più spietato che mai, nella nostra zona come nella maggior parte
dei territori italiani, fa parte del patrimonio culturale della nostra comunità e
ne rappresenta con volto nobile l’occasione di esprimersi, tenendo insieme le
ragioni alte della politica e del sentimento di popolo. Non è estraneo a tale
definizione il ruolo che assume nella mappa dei tanti eccidi imputabili al
fascismo: la strage di Maiano Lavacchio, infatti, rappresenta uno dei casi più
evidenti di memoria condivisa, in quanto la sua gravità è ed è stata avvertita
non solo dalla parte di chi vede nella nostra Costituzione democratica e
repubblicana il risultato di una lotta coraggiosa e giusta, riconoscendosi
pertanto totalmente nelle ragioni della Resistenza, ma addirittura da quella di
tanti che erano allora interni al regime e che ancora oggi non ne hanno preso
chiaramente le distanze. Anche per tanti di costoro la pagina scritta dal
fascismo sugli undici giovani di Maiano Lavacchio è pesante di una
responsabilità civile la cui violenza rimane incancellabile.
Siamo nel periodo più disperato per un fascismo che morendo muove gli ultimi
violentissimi colpi di coda, tentando un raccordo tra parti ormai vive solo nella
mente di coloro che hanno ormai fatto coincidere la propria ragione di
sopravvivenza con la sopravvivenza del regime: da una parte i rimasugli dei
fedelissimi sparsi nel centro nord del paese, dall’altra la repubblica di Salò,
simulacro di un potere ormai sfinito. La prova dello sfascio interno è data dalle
testimonianze della totale ignoranza dell’effettiva forza di questa. I prefetti
chiedono rinforzi per contrastare le bande dei “ribelli”, chiedono armi,
chiedono interventi incisivi. Li chiedono però a chi non solo non ha possibilità
concreta di dare, ma neppure disponibilità a raccogliere le richieste: i giorni
sono contati e intorno alla stato fascista c’è ormai il vuoto totale. Ma di
questo stato tragico sembra che non ci si renda conto nei territori periferici,
tra cui quello grossetano, dove i fascisti risultano molto allarmati e sbalorditi
per quella che per loro non è che una lettura superficiale del fenomeno dei
ribelli, rimuovendo l’idea di un governo centrale ormai del tutto impotente.
Alceo Ercolani, il famigerato prefetto locale, aggiunge alle sue richieste
pressanti, come supporto a queste, una considerazione sullo stato d’animo
delle popolazioni, che a suo dire si sentirebbero indifese e in balia delle truppe
violente dei ribelli, tanto che ciò potrebbe minare la fiducia riposta nel
governo fascista.
E queste ragioni ci conducono per opposizione a riflettere sul grande tema del
rapporto tra popolazione e Resistenza, la cui importanza tende a essere
oscurata dalla preminenza inevitabilmente acquistata dalle azioni dei
partigiani, dai combattimenti, dagli episodi di sangue in cui se il popolo
comune è tra i protagonisti lo è quando si scatenano le feroci rappresaglie, di
cui esso costituisce la vittima. E’ il destino dei martiri di Niccioleta e dei martiri
S.Anna di Stazzema, per citare solo alcuni degli episodi più cruenti della
resistenza toscana.
A chi si inoltra nello studio del fenomeno resistenziale, non solo indagando le
sue ragioni e i suoi percorsi generali, ma approfondendo le condizioni materiali
in cui esso si è svolto per comprenderne a pieno la portata in termini di scelte
individuali e di responsabilità collettive, non sfugge che senza l’apporto delle
popolazioni civili la Resistenza non si sarebbe potuta realizzare, almeno nelle
forme diffuse che si sono espresse.
Oltre al contributo dato da quella parte della popolazione già autonomamente
schierata in senso antifascista, va considerata infatti essenziale l’opera di
protezione e sostentamento. A testimonianza può valere ciò che si legge nella
relazione riguardante la Brigata Garibaldi “Antonio Gramsci” di Roccastrada:
“Mezzi di sussistenza: La formazione ha sempre vissuto coi viveri donati dai
proprietari e contadini della zona […]”
Un’opera che si aggiunge a quella fondamentale di copertura rispetto al
controllo (che arriva in molti casi al setacciamento del territorio) messo in atto
dalle autorità fasciste.
Questo supporto è attuato in tutto il paese, accentuandosi progressivamente
in parallelo con il peggioramento delle condizioni di vita dei civili, prostrate
dalla penuria dei mezzi primari di sostentamento, dalla devastazione di ogni
possibilità reddituale, cui si aggiunge il crescente rancore delle famiglie verso il
regime responsabile della guerra che costringe al fronte i tanti figli.
Ben altra cosa rispetto a quello “sgomento delle popolazioni di fronte alla
presenza dei ribelli” di cui Ercolani va mentendo per motivare le sue richieste
al governo fascista e la recrudescenza delle sue rappresaglie sul territorio.
In realtà anche la popolazione della Maremma è protagonista di quella
Resistenza civile che nell’episodio della strage di Maiano Lavacchio diventa
essenziale. Nell’occasione, infatti, gli undici giovani sono sostenuti da una rete
di cui fanno parte integrante le loro stesse famiglie, partecipi della loro
disobbedienza e a loro volta disobbedienti. Si moltiplicano, infatti, in questo
scorcio finale della guerra, gli appelli alla collaborazione emanati dal prefetto
Ercolani, le sue minacce delle peggiori pene per chi aiuta i “ribelli”. E le tracce
di questo fronte comune tra civili e resistenti ancora una volta si trovano
ripercorrendo lo svolgimento dei fatti di Maiano Lavacchio, che culminano con
il processo farsa e la fucilazione degli undici, ma sono accompagnate da una
sequenza ininterrotta di violenze attuate verso i civili che le squadre fasciste
incontrano nel loro cammino e sono aggravate dal compiacimento macabro
esibito dagli esecutori dell’eccidio. Sono i fascisti stessi che nell’offesa verso la
popolazione le rendono involontariamente onore ponendola, in quanto
vittima, sul piano dei combattenti per la libertà del nostro paese.
Una comunità che ha sostenuto gli undici giovani che definiti partigiani nel
primo momento, un momento di valutazione sommaria degli eventi e dei loro
protagonisti, sono stati successivamente collocati dalla corretta indagine
storica per la maggior parte nell’ambito dei renitenti alla leva, poi degli
sbandati.
Esempi di un particolare tipo di Resistenza, di cui si va sempre più apprezzando
il valore profondamente antifascista, anche se meno duttile a un trattamento
eroicizzante: la Resistenza di chi ha rifiutato la guerra, riferimento sommo
dell’ideologia fascista, e proprio per questa disobbedienza si pone in antitesi
perfetta rispetto al regime; la Resistenza di chi da patriota rifiuta di servire una
governo illegittimo.
Per questi caratteri l’episodio di Maiano Lavacchio trova oggi posto
nell’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, un’opera gigantesca
scaturita da un progetto condiviso tra governo italiano e tedesco, nella cui
banca dati sono state analizzate tutte le stragi e le uccisioni singole di civili e
partigiani uccisi al di fuori dello scontro armato, commesse da reparti tedeschi
e della Repubblica Sociale Italiana in Italia dopo l’8 settembre 1943. Allo
storico Marco Grilli è dovuta la compilazione della scheda relativa a questa
strage.
In tutto il territorio italiano si tratta di 3780 episodi, raggruppati sotto varie
tipologie, per un totale di 19160 vittime. Questo altissimo numero messo in
rapporto con i nostri undici martiri anziché sfumare le loro figure produce
l’effetto contrario di ingigantirne i contorni, ponendo quei giovani nella schiera
compatta e nobile dei tanti cui oggi dobbiamo la nostra Italia libera.
Oggi, davanti alle loro lapidi, non c’è spazio per i dubbi: la nostra democrazia
che qui, come in altri 3779 luoghi di martirio, si è costruita drammaticamente,
merita di essere difesa ogni giorno.
In Italia si deve a tutte le vittime, in Maremma lo dobbiamo agli undici martiri
fucilati qui, a Maiano Lavacchio.
La nostra memoria di loro, nel riconoscerli compagni di tante vittime
accomunate dalla stessa violenza, diventa ancora più motivata e voluta.
Rendiamo onore a loro e in questo nostro atto collettivo rafforziamo la nostra
fiducia nella democrazia che loro hanno costruito e che noi con tutte le nostre
forze ci impegniamo a tutelare.
Mario Becucci, Antonio Brancati, Rino Ciattini, Alfiero Grazi, Silvano Guidoni,
Corrado Matteini, Emanuele Matteini, Alcide Mignarri, Alvaro Minucci, Alfonzo
Passannanti, Attilio Sforzi: a voi il nostro ricordo e la nostra gratitudine.